Dagli sci da fondo alle ciaspole

(ricordi di un vecchio sciatore)

di Giorgio Inaudi

Non ho alcun ricordo di quando calzai un paio di sci per la prima volta. Dovevo essere molto piccolo, perché ricordo invece quando ebbi il secondo paio, quegli anni Cinquanta in cui frequentavo la scuola elementare. Eravamo saliti a Balme per le vacanze di Natale, sfidando il gelo della casa e le strade ghiacciate (faceva molto più freddo di adesso), perché i miei pensavano che un po’ di aria di montagna avrebbe fatto bene a questo figlio lungo lungo e magro magro (bei tempi…).

Infatti ero cresciuto parecchio e gli sci che avevo usato l’anno precedente erano ormai troppo corti. Inutile dire che allora non esistevano in valle negozi di articoli sportivi. Mio padre salì sul solaio e portò giù qualche paio di vecchi sci, roba di prima della guerra, appartenuta a mio zio Francesco Mantero. Era fratello di mia nonna e a Balme tutti lo conoscevano come Càciu, perché era figlio di una ragazza di Balme – anzi, dei Cornetti – andata sposa ad un carabiniere di Noli Ligure che era in servizio a Ceres. Morta giovane la madre, Càciu e mia nonna erano stati cresciuti a Balme dal nonno materno, Francesco Castagneri detto Canàn. Raccontano che il ragazzino, trapiantato a Balme, veniva deriso (oggi diremmo bullizzato) per la sua parlata genovese. Ma, già giovane, non era tipo da lasciarsi prendere in giro perché era solito, in questi casi afferrare il bullo e mettergli la testa in una fontana, esclamando “te càciu in ma” (che tradotto dal genovese suona un po’ come “ti butto in mare”. Bastava poco, a quei tempi, per meritarsi un soprannome che restava per tutta la vita.  Càciu era stato tra i primi Balmesi a sciare in quegli anni del primo dopo guerra, quando molti montanari come lui avevano appreso la pratica dello sci durante il servizio al fronte. Aveva anche vinto molte coppe e medaglie che tuttora conservo in qualche angolo del mio solaio. I suoi sci erano ancora là, ma erano decisamente troppo lunghi, anche per un nipotino lungo lungo come ero io. Allora mia madre suggerì di prendere in considerazione gli sci di Luciana, la povera sorella minore che era stata barbaramente trucidata a diciannove anni durante gli ultimi tragici mesi della Guerra Civile. Gli sci di Luciana andavano già meglio, ma erano comunque troppo lunghi.

Si fece allora ricorso al falegname di Balme, Antonio Martinengo detto Tòni d’Riga, che abitava in quella casa vicino alla cascata, che era stata di suo nonno Antonio Castagneri detto Toni di Tuni, la celebre guida. Mi fece alzare il braccio, per vedere la lunghezza opportuna, e quindi segò senz’altro la coda degli sci, spostando gli attacchi un poco più avanti. Inutile dire che erano attacchi che non bloccavano il tallone, con una ganascia laterale e una cinghia di cuoio. Erano adatti alla tecnica allora ancora in uso (e a quanto pare oggi di nuovo praticata) del telemark, un esercizio tanto elegante quanto faticoso. Fatevi conto che ad ogni curva bisogna inginocchiarsi su uno sci e poi rialzarsi, sempre in movimento.

La preparazione tecnica dello sciatore si completava mettendo una candela sulla stufa e poi passandola sul fondo degli sci che – è appena il caso di dirlo – non avevano né lamine ne soletta, ma erano di solido frassino dei nostri boschi.

Questi furono i miei primi rudimenti e forse per questo ho sempre preferito evitare di appoggiare le mie natiche su ski-lift o seggiovie, ad eccezione del mitico Pakinò, cosa che non mi ha impedito di imparare abbastanza da divenire, molti anni dopo, istruttore ed anche direttore della scuola di sci alpinismo del CAI UGET.

In quegli anni, si andava a sciare sui “Piani di Balme”, dove oggi sorge il moderno Villaggio Albaròn, oppure a “Campanin”, tra Cornetti e Balme, divenuto oggi un quartiere residenziale, dove abitano, tra gli altri, i sindaci di Balme e di Torino.

Addentrarsi nel vallone di Servìn, dove oggi c’è il bellissimo “Sentiero Natura” era già un’avventura, per non parlare di chi si avventurava al Pian della Mussa. Ho ancora un ricordo di quei fondisti che nella sala del ristorante Vittoria accendevano l’alcol sulla soletta degli sci da fondo, per sciogliere la sciolina.

Forse per questi esempi, mi tenni sempre alla larga dagli impianti di risalita e crebbi a forza di sci da fondo e di sci alpinismo, che era allora agli albori tanto che si utilizzava il materiale dei militari.

Da adolescente preferivo il fondo allo sci alpinismo ed anzi praticavo quello che alcuni chiamavano “sci escursionismo”, che consisteva nel percorrere con gli sci da fondo itinerari che sarebbero propri dello sci alpinismo. Il mio record fu la salita (e soprattutto la discesa) con gli sci da fondo dei 2.900 metri della Punta Rossa. Inutile contare le cadute rovinose.

Feci un’unica gara, nel 1967, e vinsi l’unica medaglia d’oro (primo premio), ma il merito non era mio, perché era una gara “lui e lei” e la mia socia era una ragazza di Balme, Maria Teresa Francesetti, bravissima sciatrice che sbaragliò gli avversari e tenne alto il punteggio della coppia. Negli anni successivi ebbi occasione di praticare uno sci alpinismo più serio con una serie di “raid” attraverso i più grandi ghiacciai delle Alpi (allora non si parlava ancora di “global warming”.

Bisogna dire che negli anni Sessanta e Settanta, quasi nessuno usava le ciaspole, che allora venivano chiamate “racchette da neve”, con grave confusione con i bastoncini da sci e le racchette da tennis (sembra incredibile, ma a Balme, in quei tempi, c’era persino un campo da tennis presso il Camussòt).

Si trattava di ciaspole in legno e corda, prive di snodo del piede, che facevano zoccolo e che era difficile calzare… roba che andava bene per i militari.

Eppure proprio queste ciaspole, che al principio guardavo con disdegno, dall’alto del mio sci alpinismo, erano destinate cambiare le sorti di Balme nei mesi invernali.

Quando feci il corso di sci alpinismo all’UGET (allora ancora non si parlava di skialper), gli anziani mi dissero che nelle valli di Lanzo non esistevano gite di sci alpinismo se non alcune in quota e a stagione inoltrata. In effetti la rapidità dei pendii delle nostre montagne richiede attrezzatura adatta e un buon controllo degli sci, cose che pochi possedevano. A quei tempi si facevano lunghe “lignole” e poi si girava magari da fermo (e talvolta cadendo). Le massime ricorrenti erano “solo chi cade può risorgere” oppure “l’importante – in discesa – è perdere quota”.

L’introduzione dello “sci corto” (ai miei tempi si usava il due metri e quindici…) e le ciaspole moderne hanno davvero cambiato la frequentazione invernale di Balme. Pendii che in passato erano ritenuti estremi (come il Canalone Rosso o quello delle Capre) sono ora alla portata di tutti o almeno di molti skialper. Passeggiate che richiedevano fatica ora si fanno agevolmente con le moderne ciaspole, che hanno non solo lo snodo, ma anche l’alza tacco e l’anti zoccolo.

Il grande perdente, in questa evoluzione, è lo sci di fondo, ormai praticato soltanto da una ristretta cerchia di atleti, in grado di praticare lo sci pattinato, soprattutto in una pista come la nostra, dove ci sono trecento metri di dislivello in salita prima di arrivare al Pian della Mussa.

Del resto lo sci di fondo è in crisi dappertutto, persino tra i nostri vicini di Bessans, dove alcuni si chiedono se valga ancora la pena di battere l’intero comprensorio o non sia meglio invece concentrarsi su un anello più ristretto. Ma a Bessans è tutta un’altra storia, per la possibilità di accedere alle piste direttamente e per la pratica agonistica del Biatlon, al punto che hanno adottato la tecnica dello “snow farming”, che consiste nel conservare la neve da un anno all’altro ammucchiandola e proteggendola con uno spesso strato di segatura.

Da noi sono ormai veramente pochi i fondisti che risalgono la pista verso il Pian della Mussa, pochissimi rispetto alle colonne di pedoni e di ciaspolieri, che risalgono in lunga fila la pista sull’altro lato della valle. Talmente pochi che a volte mi chiedo se valga la pena che il Comune sostenga l’onere finanziario di tenere battuta una pista di fondo, dove alla grande maggioranza di coloro che salgono al Pian della Mussa basterebbe la pista battuta delle motoslitte che riforniscono i due accoglienti rifugi. E inoltre potrebbe salire sul versante soleggiato della valle, invece che all’ombra dell’anvers. Ma è una valutazione che non compete a me (per fortuna…).

Rispetto allo sci di fondo, le ciaspole costano poco e sono facili da usare, sono un umile attrezzo che tuttavia dà la possibilità a tutti (ma proprio a tutti) di andare a mangiare la polenta al Pian della Mussa e di sentirsi emuli di Amundsen o di Messner…

Anch’io sono ormai tra questi, dopo che le mie povere anche sono state sostituite da protesi in titanio, forse proprio anche a causa di quelle innumerevoli cadute di quando facevo sci escursionismo.

Il mio medico mi ha detto che posso ancora sciare, devo soltanto… evitare di cadere. Un ultimo barlume di buon senso mi ha indotto a disfarmi senz’altro, per non cadere in tentazione, di tutta la dotazione di sci, scarponi e pelli di foca. Era roba di prima scelta, che avevo comperato senza badare a spese pensando che sarebbe comunque stata la mia ultima attrezzatura. L’ho regalata ad un giovane balmese che sicuramente ne farà un uso migliore di quello che ne avrei fatto io.

E gli sci di mia zia Luciana? Quelli sono al museo delle guide, insieme al mio primo slittino e a tanti altri ricordi di un tempo che fu.

Tratto da Barmes news 61 (gennaio 2024)

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