Mistero

Maria SAVI-LOPEZ, Le Valli di Lanzo. Bozzetti e leggende, Libreria Editrice Breno, Torino 1886 “Le Valli di Lanzo – bozzetti e leggende

A poca distanza da Mondrone e ove più stringesi la Val d’Ala a piè dell’imponente Uja di Mondrone, le case del villaggio detto le Molette, sono aggruppate in modo graziosissimo e si proverebbe molto diletto guardandole, se l’impeto violento di una valanga caduta nello scorso inverno, non ne avesse atterrate alcune. Innanzi a quei tristi avanzi di mura, sentesi una stretta al cuore, né vale l’aspetto gaio del paesaggio, nelle splendide giornate di agosto, a far sì che non si volga il pensiero ai lunghi mesi dell’inverno, quando le nubi si abbassano sulle cime dei larici, e fra la neve spiccano i massi enormi e neri, che sono minaccia continua ai tranquilli villaggi delle Alpi.

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Da alcune donne delle Molette sentii narrare casi pietosi avvenuti nel villaggio, quando la valanga cadde nell’ora istessa in cui una parte del vicino comune di Balme fu anche sepolta sotto la neve; e guardai con ammirazione due belle fanciulle sedute sull’erba di un prato, a guardia di alcune vacche. Esse erano rimaste sepolte per parecchie ore nella loro casa che minacciava rovina, mentre si piegavano le travi del tetto e si aprivano le mura. Il coraggio del padre le aveva finalmente liberate, e non essendovi nel villaggio che alcuni vecchi i quali non potevano portar soccorso ad altri infelici sepolti nei casolari sulla montagna; esse per aver maggior libertà nei movimenti, eransi vestite con abiti dei fratelli assenti, e col padre ed altre donne, lavorando senza posa, colla febbre nel cuore, a rischio della vita, sotto la minaccia di nuova valanga, erano riuscite a salvare alcuni infelici; vivi accanto ai loro cari, uccisi dal peso enorme della neve, dei sassi caduti e dei tronchi spezzati di larici.

Molette (1900 circa) archivio Paolo Rossato

Ma come se non bastasse quel ricordo di sventura e d’eroismo, per mettere un fascino potente intorno alla piccola borgata ignota al mondo, eppur dall’aspetto così piacevole fra le Alpi, intesi anche lassù una semplice e pietosa storia d’amore; e fu questo un caso che mi avvenne assai di rado nelle Valli di Lanzo, ove par che la fantasia popolare, lavorando intorno ai vecchi racconti che dicono del diavolo, delle streghe, e delle misteriose ridde o corse notturne di morti e di fate, dimentichi spesso i drammi veri e tremendi del cuore umano, o li lasci nell’ombra, come accesa unicamente per la forte poesia della montagna.

Parecchi alpigiani, nati nelle case delle Molette, ebbero nome di valorosi fra i migliori cacciatori di camosci della Val d’Ala: Uno fra essi chiamavasi Andrea, egli era buono e pio, e d’estate nei giorni di festa, non mancava mai di trovarsi all’ora della Messa nel suo borgo natìo, non curandosi più della solita caccia, perché l’affresco mezzo cancellato della chiesa di Balme, estremo comune della Val d’Ala, ricorda a tutti la paurosa leggenda del cacciatore che dimenticò di festa il suo dovere di buon cristiano; ma dopo l’ora del Vespro, quando le fate non erano raccolte nella sala da ballo a Piansoletti, ed il misterioso lume vagante della valle non erasi ancora acceso a Mezzenile, per viaggiare di borgata in borgata; Andrea che aveva il cuore attratto potentemente verso un alp, oltre il meraviglioso Pian della Mussa, dava un saluto ai compagni e andava con passo rapido a Balme; portando il fucile, perché voleva pure all’alba del giorno seguente trovarsi pronto per la caccia ai camosci.

In Balme i suoi conoscenti gli auguravano fortuna nella pericolosa caccia, egli ringraziava con un franco sorriso, poi si rimetteva in via, seguendo il corso della Stura nel vallone che volge al Pian della Mussa; e giunto lassù, mentre camminando pareva che affondasse in mezzo ai fiori, guardava attentamente, per discernere se fra le donne e le fanciulle che tornavano al Piano, o seguivano le vacche prima di rinchiuderle nelle basse stalle, gli fosse dato di vedere la testa bionda di un’alpigiana, ch’egli preferiva a qualsiasi altra fanciulla della valle; e spesso egli la vedeva, mentre camminava sui miosoditi nani fioriti, o l’orlo della sua sottana turchina faceva piegare i fiori dell’arnica montana e le margherite. Altre volte ancora, ella era seduta vicino ai bassi cespugli dei rododendri, ed accanto al suo grembiale rosso spiccava il candore di un nevato.

S’ella era là, sola con le capre che salivano sui massi accumulati in un disordine indescrivibile, e coperti in parte di granati dalla tinta pallida ancora, eppure scintillanti sotto gli estremi raggi del sole che lasciavano il Piano; egli sedeva accanto a lei, vicino alla neve ed ai fiori rosei, e guardandosi negli occhi, essi non trovavano forse parole per manifestar quanto sentivano in cuore.

Erano entrambi quasi ignoranti affatto, ma nati fra le Alpi, avvezzi a vivere coi propri pensieri nella solitudine, ella a custodia delle capre, egli inseguendo i camosci, spesso in mezzo ai boschi di larici e di faggi, o sugli estremi pascoli accanto ai ghiacciai; avevano in cuore la forte poesia che la montagna insegna a chi l’ama, e tenaci al pari di tutti gli alpigiani, nell’affetto intenso per le Alpi, non avrebbero per nessuna cosa al mondo lasciato per sempre i pascoli ed i villaggi alpini. Ma essi non erano felici in quella pace del giorno che volgeva al tramonto, sul Pian della Mussa, non lungi dalla Stura che lambiva appena i fiori della sponda e l’erba sottile. Ella che si chiamava Rosa era orfana e povera, serviva una famiglia di pastori e fin dall’infanzia era sempre stata a guardia delle capre, seguendole fra mille pericoli, sugli erti monti, vicino ai laghi tristi, ai torrenti ed ai ghiacciai; dicendo il canto mesto alla montagna, non udendo quasi sempre sulle Alpi che il tintinnio delle campanelle portate dalle capre, la gran voce dei torrenti, ed il canto del capinero; al quale pareva che rispondesse il gemito dei codirossi, o il rauco grido delle cornacchie.

La sua vita era però sempre stata nel passato; purché di sera nell’estate ritornasse con tutte le capre all’alp o nella muanda, ove la traeva la vita nomade dei sui padroni, nessuno la sgridava mai; e nell’inverno ella discesa in pianura, filava tranquillamente in una stalla, accanto ad altre fanciulle; pensando forse ai giorni allegri passati sulle Alpi. Colle capre allato, cercando le fragole mature o i ciclami fioriti, all’ombra dei castagneti; ma un giorno erasi incontrata col cacciator di camosci vicino ai ghiacciai che si distendono a piè della punta superba dell’Alberoni, all’estremo confine d’Italia in Val Grande.

Ella seduta sull’erba cosparsa di viole aperte accanto alle stelle turchine della genziana nana, stringeva fra le manine brune le trecce che mandavano fulvi bagliori sotto i raggi del sole, e le si erano disciolte mentre avea cercato una capra smarrita; lentamente le appuntava di nuovo sul capo, cantando mestamente come usano i pastori, ed aveva i piedi nudi e bruni adagiati sull’erba. Egli scendeva dai ghiacciai di Sea, portando sulle spalle un camoscio che aveva ucciso verso il ghicet di Sea; ne aveva bevuto il sangue caldo, ed uno splendore nuovo di forza e di bellezza irradiavagli la fronte.

 Gli alpigiani nell’incontrarsi per caso sulle montagne discorrono subito insieme nel loro dolce dialetto. E pare ad essi cosa piacevole vedere un volto sorridente e udire una voce umana dopo le lunghe ore di solitudine. Andrea gittò il camoscio sul ghiaccio innanzi alla fanciulla e sedette a poca distanza, ella finì di fermare le trecce pesanti e si guardarono in viso.

Il sole gittava in quel momento fasci di luce sul ghiacciaio e sulle morene bigie, e la Stura correva libera e furiosa in mezzo al candore delle sue gelide sponde, o con un rombo spaventevole entrava sotto misteriose volte di ghiaccio e spariva nel buio. In altro fra le creste bizzarre, sorgevano come inaccessibili l’Uja di Mondrone e la punta dell’Alberoni; sui pascoli estremi risonavano le grosse campane portate dalle vacche, o udivasi di tanto in tanto nella solitudine imponente un cupo rumore, cagionato dalla caduta di un sasso accanto ad una vecchia morena; o dall’aprirsi di un crepaccio nuovo nella massa movente del ghiacciaio, ed era ripetuto dall’eco da montagna a montagna.

Andrea e Rosa parlarono in quel giorno a lungo insieme. Ella disse della pazza corsa fatta per riscoprir la capra smarrita, egli narrò che aveva passato due giorni fra le rupi, innanzi ai ghiacciai, prima di uccidere il camoscio, e che l’aveva colpito all’alba; ella parlò dell’estremo gias, ove raccoglierebbe per alcune sere ancora le capre e le pecore, prima di scendere agli altri gias verso l Val Grande e di là alla fiera di Lanzo; Andrea disse ancora che sarebbe tornato lassù per dar guerra ai camosci, poi si lasciarono con un lieto saluto ed un sorriso; ma l’alpigiana sentì una stretta al cuore ed uno sgomento non mai provato nella solitudine mentre vide scendere il cacciatore  verso il vallone di Sea, e non cantò a sera quando ritornò colle capre nell’alp. Andrea invece pensò alla nuova caccia che darebbe ai camosci, discese con passo sicuro camminando su massi enormi accumulati nel vallone, fra la neve e i rododendri, passò innanzi a Forno-Alpi-Graie, e di là andò all’albergo allegro dei Richiardi, ove fanciulle e signore si affollavano intorno al camoscio ucciso. Nei giorni seguenti salì per la caccia verso il pericoloso Col Girard ed i ghiacciai della Levanna, né pensò a tornare come avea promesso nel vallone di Sea, ove pascolavano le capre della giovane alpigiana.

Dopo un anno eransi ritrovati per caso sul Pain della Musa, in Val d’Ala. Rosa non avea dimenticato Andrea, egli nella vita operosa menata d’inverno in Torino, avea spesso come in un sogno visto la bella testa dell’alpigiana incontrata nel vallone di Sea, ed i suoi splendidi occhi azzurri. Appena si rividero, rosa commossa profondamente impallidì accanto a lui, Andrea a stento seppe dirle alcune parole, poi si guardarono a lungo e sorrisero; da quell’istante il giovane decise di sposare la fanciulla, ed ella pensò che non vi era altro uomo al mondo che le piacesse quanto il bruno cacciator di camosci. Ma la famiglia di Andrea aveva terre e casa, e tutti i suoi si ribellarono all’idea di accogliere come figlia o come sorella la povera alpigiana senza famiglia e senza dote. Una guerra aperta cominciò contro Andrea, ed egli quando poteva si allontanava dalla propria casa, andava di nuovo al Piano, non solo in cerca di camosci, ma per riveder la fanciulla e dirle le amarezze nuove provate. Ella piangeva asciugando con un lembo del grembiale le guance pallide, ed il capinero cantava sui rododendri senza essere ascoltato da quegli infelici, i fiori dei pascoli perdevano ogn’incanto, la montagna sembrava desolata e brulla, ed essi non avevano più negli occhi la giovanile allegria, né il sorriso dei giorni lieti sulle labbra.

A poco a poco morirono sui pascoli gli ultimi fiori, la nebbia si addensò con frequenza lungo i fianchi della Bessanese e della Ciamarella, l’acqua della stura corse più gelida fra l’erba sul Pian della Mussa, era giunta l’ora di menare altrove gli armenti e Rosa doveva partire.

Andrea pregò ancora i suoi perché gli lasciassero sposare la fanciulla amata, ma li trovò sempre inesorabili; la sposasse pure poiché voleva così, ma non l’avrebbero mai come persona della propria famiglia, né mai le sarebbe usata la cortesia di un saluto o di una parola amichevole, e Andrea chinò il capo senza rispondere; era mite di carattere e gli mancava il coraggio di lottare contro i suoi, ribellandosi innanzi alle fronti venerande dei suoi genitori.

In una giornata triste, in sul principio di settembre, Rosa diretta colle capre ad altri pascoli discese dal Pian della Mussa, passò a Balme e si avvicinò ai casolari delle Molette. Le capre si fermavano sulla via che mena ad Ala di Stura, volgendosi a destra o a sinistra per cercare l’erba folta, ed ella con alcuni pastori le obbligava ad andar nuovamente innanzi per la via diritta. Finalmente passò fra le casette basse del villaggio, sotto i neri balconi di legno ed innanzi alle porte scure delle stalle; Andrea addossato ad un muro la vide venire dalla via di Balme ed egli avea negli occhi uno splendore di febbre. Essa gli passò accanto; in quel momento la via era deserta, le ultime capre, coi pastori allato, scendevano verso la strada d’Ala, Rosa era rimasta ultima fra tutti; Andrea le si avvicinò, le strinse una manina ardente che tremava, ed ebbe solo il coraggio di dirle addio; essa non rispose, ma un singhiozzo le uscì dalle labbra impallidite. Andrea le lasciò finalmente libera la mano, ella senza voltarsi continuò per la sua via seguendo le capre, egli la guardò finché fu possibile vederla, poi come se non reggesse più al dolore, rimanendo inerte in quel sito mentre ella partiva, spalanco con un pugno l’uscio della propria casa, tolse il fucile sospeso accanto ad una madia oscura, si calcò sulla fronte il cappello e prese la via della montagna verso Balme.

Rosa è salita ancora sui pascoli, ma Andrea non è tornato più nel borgo natìo, e non v’è chi ne abbia notizie. Nel delirio del dolore che gli offuscava il pensiero, ha egli dato pazzamente la caccia ai camosci e non vedendo nuovi crepacci paurosi, è rimasto a dormire l’ultimo sonno nel ghiacciaio del Collerin? O è disceso in Savoia per andar di là a cercar lontano la fortuna o l’oblio? È un mistero, ma Rosa sa ch’egli credeva in Dio e non avrebbe mai cercato volontariamente la morte; ha anche fede nel suo coraggio, nell’affetto intenso del suo forte cuor d’alpigiano, ed essa spera e l’aspetta ancora.

Tratto da Barmes News n.60 (luglio 2023)

Figlia di frontiera

di Gianni Castagneri

«Balme è stata per me una sorpresa e al tempo stesso come un ritorno». Esordisce con queste parole Virginia Farina, che da oltre vent’anni scrive sul tema della migrazione e della non-violenza e che ha appena pubblicato il romanzo “Figlia di frontiera”, presentato al recente Salone del Libro di Torino.

«Sono nata in un piccolo paese del centro Sardegna, che se anche immerso in una natura molto diversa, ha lo stesso senso di spazio smisurato intorno, la stessa commovente durezza che forgia uomini e donne sensibili e “antichi”, perché radicati alla terra e a un senso del vivere che sa ancora di una saggezza fuori dal tempo. Ho così iniziato a incuriosirmi e a leggere tutte le testimonianze che trovavo sulla storia di queste montagne che, chissà per quale misteriosa ragione, sentivo sempre di più come anche mie. Ho iniziato ad amare le sue case e le sue pietre, le salite ripide, le visuali che si aprono improvvise, e dentro di me si è fatto largo quel desiderio viscerale delle altezze che spinge oltre l’orizzonte».

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La narrazione, inconsueta per queste zone ma già ben presente in vallate vicine, attraverso una prosa limpida ed emozionante trascina fin dall’inizio ad un’attenta lettura: sulle cime di Barmes, il vecchio Touni trova nella neve una bimba nera appena nata. La marcia disperata dei migranti per passare in quota il confine era stata troppo dura per una donna incinta, ma la piccola figlia di frontiera vagisce ancora, è viva. Touni e i suoi compaesani proveranno a proteggere questa nuova vita dal freddo e dalla polizia che bracca i clandestini. È la legge arcaica dei montanari che li obbliga a soccorrere chi si è perduto, mentre giù a valle la retorica governativa persegue una campagna contro i migranti che si fa sempre più cieca e insensata.

Virginia Farina racconta una storia di montagna che mescola all’antico profumo del fieno e del letame, il suono cupo di passi in fuga sulla neve. Con “Figlia di frontiera”, ha vinto nel 2021 il premio speciale Routes Médi- terranée nell’ambito del “Premio InediTO – Colline di Torino”. 

«Ho scoperto Balme per una serie di piccole coincidenze. Credo però di avervi incontrato una realtà non sempre comune nelle montagne, nella quale è sedimentata una cultura contadina e al tempo stesso profondamente intellettuale, perché sono tante le tracce rimaste nel tempo attraverso la scrittura dei suoi uomini, tracce che non solo documentano usi ed avvenimenti, ma anche visioni del mondo. Poco a poco si è fatta spazio in me l’idea di un universo ricchissimo, capace di stravolgere molti preconcetti e di connettere luoghi e pensieri apparentemente inconciliabili».

L’idea del romanzo è nata qui. Era il 2018 e si iniziava a parlare delle vie alpine di migrazione verso la Francia, in particolare lungo la Val di Susa. Ricordo la storia di una donna, Destiny, partita dall’Italia incinta di 7 mesi e morta in quota, e ricordo diversi episodi di condanna, anche di carcerazione, per chi, sull’altro versante, soccorreva i clandestini. Allora si è creato un me un corto circuito. E se le vie di migrazione seguissero quelle antiche di comunicazione sparse anche in altre valli? E se si inasprisse ancora la chiusura delle frontiere? Saremmo capaci di salvare se non quella madre il futuro della bambina che portava in grembo? E poi ancora sono fiorite altre domande, quale futuro attende le nostre montagne, i nostri territori più periferici che sempre di più si spopolano e trovano troppo spesso solo nel turismo una ragione di esistere? E quale senso della giustizia e della vita hanno da trasmetterci gli anziani che sono lo spirito di questi luoghi?

Con il mio libro – conclude l’autrice – spero di poter contribuire a trasmettere anche solo un poco il grande valore di una cultura capace di abitare le frontiere e di guardare oltre».

Tratto da Barmes News n.60 (luglio 2023)