Tra i fiori più belli – L’emancipazione femminile tra rocce e dirupi

di Gianni Castagneri

Troppe volte, nella narrazione del passato, si sacrifica la funzione che ebbero le componenti del cosiddetto sesso debole nel corso della storia. Una società sovente misogina, strutturata sulla sottovalutazione, sullo sfruttamento e il sacrificio anche fisico della componente femminile, ha spesso omesso il ruolo decisivo di esistenze votate all’adattabilità, anello di congiunzione tra generazioni, divenute cardine essenziale nella trasmissione della memoria e di protagonismo in ogni più impercettibile ambito delle vicende umane. Quelle che per secoli furono vittime di realtà grame vissute in condizioni ambientali e sociali difficili, succubi di «un’accettazione rassegnata sedimentata nella mente, una specie di presa d’atto di una ineluttabilità, come se l’essere donna comportasse inevitabilmente quel destino»[1],  specialmente nel corso dell’ultimo secolo, cominciarono a farsi largo e accrebbero il loro peso e il riconoscimento della società, esemplari figure femminili che seppero districarsi tra le situazioni più differenti, capaci di agire talvolta con forza d’animo, intelligenza, coraggio, qualità non sempre ascrivibili alle controparti maschili.

La ricostruzione di alcuni episodi e avvenimenti ci permette di raccontare un po’ di loro.

È da poco conclusa la Seconda guerra mondiale e la leggerezza della ritrovata libertà porta un nuovo entusiasmo. A Ceres le più belle ragazze valligiane partecipano all’elezione di Miss Valli di Lanzo: «L’allegria e la gioia sono state sul volto di tutti, giovani e anziani; risate gaie e spensierate che hanno fatto dimenticare ai nostri forti montanari le ore tristi e dolorose dei giorni in cui l’ira bestiale di uno straniero invasore volle schiacciare in queste valli, il risorgimento del popolo italiano. E quando a mezzanotte, Nunzio Filogamo [2] annunciò che Miss Valli di Lanzo 1947 era stata eletta, uno scroscio di applausi, estrinsecazione di una gioia a lungo repressa, scoppiò come un uragano.

Le Valli di Lanzo hanno oggi il loro fiore, hanno una reginetta, una ragazza forte e bella, la stella alpina delle nostre montagne: Sig.na Bastianini Maria di Balme».[3] La reginetta delle valli era sfollata in alta valle qualche anno prima, e qui la famiglia vi aveva avviato un panificio, attività che negli anni successivi avrebbero spostato a Lanzo, dove il fratello Franco diverrà popolare per la rinomata produzione dei famosi torcetti.

Nel pomeriggio di domenica 5 gennaio, come si racconta nell’articolo, dopo la sfilata di dame e cavalieri i festeggiamenti raggiunsero il culmine nelle sale dell’Albergo Miravalle, dove le «danze caratteristiche delle nostre valli “la curenda” e i “sette salti”, sono proseguiti alla sera durante il veglione». Il giorno dopo, i festeggiamenti continuarono con sfilata di carri allegorici e «Miss Valli di Lanzo 1947 e le 4 damigelle, adagiate in un grosso fiore di genzianella, sono passate per le vie di Ceres dando a tutti la serenità del loro sorriso. Nel Caffè Bianco, Miss Valli di Lanzo 1947 ha poi ricevuto in dono un magnifico bracciale in argento, dono che vuole significarLe l’omaggio di tutta la gente delle montagne per il suo fiore, bello fra i belli».[4]

Ceres 5.01.1947- Elezione Miss Valli di Lanzo – archivio Apollonia Castagneri

La gioia per la riuscita manifestazione avveniva a poca distanza dall’agosto del 1944, quando la situazione era ben più tragica. La valle, allora bloccata e affamata dai fascisti, non poteva disporre di viveri per il distaccamento partigiano. Piero Carmagnola, uno di loro, addetto all’ospedalino, ricordava con affetto i comportamenti coraggiosi delle balmesi: «Facciamo appello al Cln, costituitosi in questi giorni. La buona razza piemontese della Val di Lanzo risponde ancora una volta all’appello. E il giorno successivo, le donne del paese ci offrono le poche provviste delle loro madie ormai vuote: chi un po’ di farina da polenta, chi un chilo di patate, chi un sacchetto di riso. Care, buone donne di Balme, che ci amate come figli, e che soffrite delle nostre pene! Mentre tanti egoisti si chiudono nel loro piccolo mondo per non sentire i lamenti dei bisognosi, voi donate il poco che vi rimane ai vostri ribelli, che lottano laceri e affamati contro un nemico mille volte più forte di loro».[5]

Che in montagna le donne fossero straordinarie se ne erano accorti decenni prima gli osservatori pionieri che guardavano la valle con occhi diversi.

Il conte Luigi Francesetti nel suo attento reportage di viaggio pubblicato nel 1823, scritto a seguito di lunghe escursioni nelle Valli di Lanzo, scriveva: «Qui a Mondrone, tre anni fa, ho potuto osservare un’altra sorta di portento, fisico e spirituale insieme: sono stato colpito dalla vista di una giovinetta di diciassette – diciott’anni che faceva la domestica in una casa in cui ero stato ospite per qualche ora. Domenica Drovetti non si era mai spinta oltre Lanzo; tuttavia i suoi modi e il suo spirito erano infinitamente superiori alla sua condizione. Un istinto particolare aveva sostituito in lei quell’istruzione che le mancava. Quasi sicuramente, senza che se ne rendesse conto, disponeva di molti tipi di seduzione; e la sua figura fine, espressiva, spirituale e al tempo stesso armoniosa, aveva in sé di che soddisfare un abile romanziere nella descrizione della sua eroina. Ho fatto notare la cosa a molti stranieri e, quel che più conta, a molte signore dell’alta società; il giudizio generale è stato più o meno simile al mio. L’impressione che ne ha avuta uno di questi stranieri è stata ancor più favorevole, dato che ne ha riportato un ricordo talmente vivo da non potersi più parlare di semplice reminiscenza. Ho saputo quest’anno che la giovine ha appena sposato un muratore di Balme».[6]

Già nel 1880 nella guida del C.A.I. curata dagli alpinisti Martelli e Vaccarone che qualche anno prima avevano salito con successo, insieme ad Antonio Castagneri, l’Uja di Mondrone in inverno, suggerivano a proposito di Balme, di rivolgersi per facili passeggiate a «donne e i ragazzi stessi, poiché v’è scarsità di uomini, i quali o sono assenti o dediti ai lavori delle campagne, [le donne n.d.r.] accompagnano sovente il viaggiatore portando anche nel loro garbìn le valigie o le provvigioni». Consigliava inoltre una visita ai Cornetti, dove vi «è fama che qui siano le più belle e gentili contadinelle del paese».[7]

Avvezze ad ogni fatica, non di rado mogli e sorelle davano anche un sostegno alle attività delle guide alpine, trasportando in quota derrate o attrezzature necessarie allo svolgimento della professione, evitando ai congiunti impegnati in campagne di più giorni al servizio di facoltosi alpinisti, di scendere a valle per rifocillarsi. E tra loro non tutte disdegnavano di attraversare i colli a oltre tremila metri nell’atavica pratica del commercio, e poi contrabbando, con la vicina Savoia. Una per tutte Gina, sorella della famosa guida Antonio Castagneri, meglio noto come Tòni di Toùni, la quale senza spegnere mai la pipa trasportava il suo greve carico tra i ghiacci insieme agli abili fratelli.

L’esistenza severa non risparmiava nessuno, tantomeno le esponenti del gentil sesso che non di rado lasciavano la vita in giovane età. A ricordarcelo vi è stato di recente un malinconico ritrovamento. Nell’estate del 2020, alcuni lavori di consolidamento del muro di sostegno del vecchio cimitero nei pressi della chiesa, fecero emergere una lapide sepolcrale probabilmente interrata nel momento dei lavori di spostamento del camposanto alla sede attualmente in uso. Dalla lastra marmorea non emergono le cause che l’8 marzo 1900, giornata in seguito individuata per festeggiare proprio i diritti della donna, provocarono il decesso di Marianna Castagneri, primogenita di Francesco Andrea Toùni, guida alpina e fratello del noto alpinista Tòni. Marianna aveva solo 26 anni ed era sposata con Pancrazio Castagneri. La donna lasciava un bimbo di poco più di quattro anni. Il marito, conosciuto come Pancrasìn di Toùni, faceva di mestiere la guida alpina. Una breve ricerca genealogica ha rivelato che il figlio della giovane, Giovanni Battista poi detto Lou Gròs, diventato adulto, dopo il servizio militare nella Grande guerra sarebbe diventato a sua volta guida e albergatore, padre di Pancrazio, detto Gino, Silla e Marianna, quest’ultima a lungo titolare di attività ristorative e ricettive che riprendeva il nome della nonna prematuramente scomparsa.[8]

Nel paese in passato densamente popolato, caratterizzato da un’economia concentrata perlopiù nel reperimento di ogni risorsa disponibile e da una vita quotidiana certamente carente da un punto di vista igienico e sanitario, frequenti erano le disgrazie. Talvolta la gravidanza, diventare “gròsa” come si diceva, che generalmente era un’esperienza ripetuta più volte nella vita di ogni moglie, poteva anche rappresentare una condanna dagli esiti imprevedibili e talvolta letali. Tuttavia Luigi Clavarino nel 1867 annotava: «Malgrado la niuna o poca cura igienica che si hanno le gestanti, dei gravosi lavori, a cui le medesime si sottopongono negli ultimi mesi della loro gravidanza, e la mancanza assoluta di ostetrici e levatrici, è raro che il parto alteri la salute della madre e del feto. La costituzione robustissima di cui sono dotate, la non mai abbastanza encomiata abitudine di non imprigionare le loro robusta membra in quello strumento di tortura quale è il busto, che la moda impose alle abitanti delle città e dei paesi meridionali; la mutua assistenza fra le donne di una stessa borgata, producono incontestabilmente i parti felici, tanto necessari all’interesse dell’umanità».[9]

In una società nella quale i medici erano pochi e il loro impiego esclusivamente a pagamento, gli alpigiani se ne avvalevano solo nei casi più estremi della malattia. In contrasto con le abitudini e le tradizioni invalse, non di rado, riportava Clavarino, si provvedeva ad esempio alla pratica domestica e improvvisata di innestare il vaiolo: «D’ordinario nei paesi lontani questa pratica salutare viene abbandonata a persone inesperte, a donne per lo più, che, allora quando si presenta un individuo affetto dal vaiuolo arabo, o colle pustole del vaccino, lo innestano in tutti i bambini ed adulti della borgata con una spilla la di cui punta viene immersa nella pustola del soggetto già vaccinato. È raro che l’operazione non riesca completamente».[10]

Operazioni curative spesso affidate ai «consigli di donnicciuole empiriche, vera peste della società», sentenziava, che in qualche modo supplivano alle carenze sanitarie somministrando latte, burro o infusi di erbe, oppure «spedendo a Torino una persona della famiglia con una ciocca dell’ammalato, per seguir poi col massimo scrupolo le fatidiche ricette di una sonnambula».[11]

In condizioni simili si poteva facilmente morire per un’infezione, un’influenza mal curata, o di parto, murì äd paiòla, come si diceva allora. Oppure per una disgrazia tra le alture del paese. Come accadde a Maria Francesca Castagneri (Sascàsi) che dopo soli 14 giorni dal proprio matrimonio, il 3 agosto del 1823 cadeva dalle rocce vicino all’alpe Giassät mentre pascolava le capre e dove tuttora esiste una croce nel luogo identificato appunto come La croùs. Nel 1826 invece, fu Maria Orsola Castagneri (Tucci) di vent’anni, laourèri, ovvero persona di servizio ad un agricoltore savoiardo, a cadere nell’indritto (versante a solatìo) di Bessans, mentre tagliava fieno. Qualche anno dopo invece, Marianna Bernagione di 80 anni l’11 agosto del 1844 moriva “per sfinimento” mentre pascolava le capre presso il Crot äd l’oùla, una zona impervia a circa 1900 metri sul monte Forte, di fronte ai Cornetti. Poco distante il 2 giugno 1865 Maria Domenica Bricco di 32 anni, precipitava nei pressi della rupe del Dente mentre raccoglieva “impaglio”, il cosiddetto fen äd mountàgni [12], lasciando due bimbi in tenera età. E ancora il 22 ottobre del 1869 la triste sorte toccava a Maria Maddalena Bernagione di 52 anni, scivolata mentre tagliava fieno al Piano della Mussa, in regione Viounät. E ancora a Maddalena Giraud, che nel 1888 cadeva mentre raccoglieva fieno tra le rocce in località Cianchiòs. Il 14 ottobre del 1924 nel luogo conosciuto come La Ghiéri, Maria Castagneri (Prät) di 72 anni mentre raccoglieva legna da ardere rimaneva con una gamba schiacciata tra alcune pietre. L’incidente, non banale, la portò alla morte il giorno dopo. La forte pressione demografica comportava la necessità di intercettare ogni risorsa e il rischio faceva parte delle regole di sopravvivenza. Tremende, ancora, erano le circostanze che coinvolgevano i bambini e che gettavano nello sconforto le famiglie e l’intera comunità. Il 2 giugno del 1884 Maria Rosa Bricco di neanche due anni moriva cadendo accidentalmente in un paiolo di latte. Qualche decennio dopo, era il 1923, Maria Martinengo (Cianìn) di quattro anni, periva atrocemente per le conseguenze di un’analoga caduta in un paiolo di acqua bollente.[13]

Dipinto di Laura Ferreri

Le valanghe che il 18 gennaio 1885 investirono il paese uccisero invece tra gli altri due giovani madri di famiglia. Maria Orsola Castagneri Tucci, moglie del maestro del paese, dopo affannose ricerche fu ritrovata trafitta da uno dei corni della culla, con dentro l’ultimo nato. Forse stava dandogli il latte o aveva cercato di proteggerlo. Simile sorte toccò lo stesso giorno a Maddalena Solero Sevànt, che viveva alla frazione Molera con i sei figli mentre il capofamiglia, Domenico Solero, come spesso avveniva all’epoca, si trovava a Torino dove lavorava durante la stagione invernale. Oltre alla mamma, morta nel crollo dell’abitazione, perì anche appena estratto il figlioletto più piccolo di soli due anni. Si salvarono invece gli altri cinque figli.[14]

Nella società dell’epoca, imperniata sull’autorità patriarcale, il subalterno ruolo femminile sottostava al volere del capofamiglia e non di rado la donna maritata si trovava a convivere sotto lo stesso tetto dei suoceri (massè e madòna), mantenendo un distacco reverenziale che si esprimeva anche rivolgendosi loro rigorosamente con il voi (dounà dou voùs). «Donne dal cuore indurito, spose, madri primitive e selvagge, vedove malmaritate che fecero del lavoro la loro religione implacabile e loro stesse, che avevano perso il senso della propria vita, le condannate a viverla» osservava Piercarlo Jorio. [15]

Fin da bambine anzitutto, svolgevano lavori di fatica alla pari degli uomini, in luoghi in cui era quasi inesistente la presenza di animali da soma e la severità del territorio richiedeva un importante dispendio di manodopera. A Caterina Castagneri (1925-1990) detta Tìna e nonna materna di chi scrive, appartenente ad una famiglia numerosa ridotta alla più estrema povertà dalla prematura e improvvisa scomparsa del capofamiglia, fin da piccola era stata negata la fanciullezza spensierata ed era stata invece mandata a servizio di due sorelle, solo un po’ meno indigenti, soprannominate al Plìfres, le quali in cambio di un vitto modesto usufruivano del suo fragile sostegno per seminare le patate e portare le bestie al pascolo dove, ricordava, piangeva in continuazione, temendo, più che a sé stessa, che le vipere potessero mordere le vacche che custodiva.

Dipinto di Laura Ferreri

Il trasporto di ogni materiale, compresi masserizie, terra, letame, avvenivano con la cabàssi, la gerla, o col garbìn, cesto cubico utilizzato principalmente da donne. Le quali non temevano nemmeno, talvolta due volte al giorno, di inerpicarsi in estate al bacino di accumulo nevoso del Crot äd l’oula per ricavarvi la neve compressa da impiegare nella conservazione della carne nelle ghiacciaie degli alberghi del paese. «Alcune di loro – racconta Paola Castagneri, memoria storica del paese -, particolarmente vivaci e determinate, ad un certo punto vennero in possesso di un libro, oggetto rarissimo per l’epoca, di Santa Genoveffa. Ne lessero attentamente i contenuti e come la santa decisero di ritirarsi nel bosco e condurre una vita ascetica. Ben presto, forse provate dal digiuno e dall’isolamento, videro interrompere la vocazione religiosa dalla percezione delle note di un’improvvisata orchestrina che si stava dilettando nella vicina borgata dei Cornetti. Il richiamo musicale ebbe la meglio e l’aspirazione alla santità fu presto rimpiazzata da balli svolazzanti coi coetanei del paese».[16]

Il 6 agosto 1885 la scrittrice napoletana Maria Savi Lopez raggiunse Balme per documentare il paesaggio, le leggende e i racconti dei montanari. Salendo al Pian della Mussa notava con entusiasmo romantico: «In questo momento la vita che ferve in agosto su tanta parte delle montagne, mette la sua poesia da ogni lato nel vallone, ed a piè delle nere pareti, alcune fanciulle bellissime, coi piedi nudi sulle rocce, discendono verso Balme, curve appena sotto i fasci di erba o i garbin colmi. Parecchi gruppi d’uomini e di donne sono innanzi ad alcune piccole case, e molti bimbi corrono sui fiori, non lungi dalle vacche e dalle pecore che sono al pascolo, fra l’erba profumata dell’erba e del timo».[17]

Bogone- Inizio Novecento

Qualche anno dopo, era la fine dell’estate del 1912, la pittrice Estella Canziani, nata a Milano nel 1887 da padre italiano e madre inglese, compì un viaggio nelle Valli di Lanzo ed il suo soggiorno balmese restò memorabile grazie a due dipinti di personaggi ritratti nel costume locale, tra i quali una ragazza in abito da sposa, e ad alcune informazioni di carattere etnografico.  L’artista notava tra l’altro: «Nel paese e nei dintorni c’erano molte vecchie che avrebbero potuto passare per masche [streghe, n.d.r.]. Andavano curve per gli anni, vestite miseramente, spesso senza denti, o quasi cieche: ma non ho mai visto nessuno che potesse raffigurare una masca meglio di una donna che sedeva sulla porta di una stalla. Non credo ch’essa potesse affatto camminare, o doveva dormire colà o colà la portavano ogni giorno. Sedeva su una specie di cassa coi piedi su uno sgabello. La persona era come un arco e aveva la pelle del colore della carta straccia; un misto di sudicio e di abbronzato per la pioggia e per il sole. I capelli di un nero sporco le cadevano aggrovigliati sulla faccia a guisa di code, e ritengo che avesse un dente solo. Un cencio le copriva la testa e cenci e stracci d’ogni forma e qualità le erano sparpagliati all’intorno, ed essa li andava separando, masticando e brontolando continuamente».[18]

Inizio Novecento

In un paese nel quale le ragioni impellenti della concretezza lasciavano poco spazio agli eventi inspiegabili dell’immaginario, sono rari i racconti, al couìntes, di masche e sortilegi. Qualcuno ancora narra di Michinòta (diminutivo di Domenica), che non era una màsca ma senz’altro esercitava una certa inquietante suggestione. Dopo essersi fatta suora infatti, posò il velo per diverbi con la madre superiora. Tornata al suo paese con una buona istruzione, condusse una vita di ristrettezze, traendo qualche beneficio economico dall’esercizio della cartomanzia coi villeggianti, all’interno di una casupola tuttora esistente nei pressi della suggestiva cascata della Gorgia. Era evidentemente pervasa da un’aura misteriosa, alimentata dal fatto che sotto il letto tenesse la propria bara, pronta per il definitivo trapasso e che destava la timorosa curiosità dei ragazzini e forse anche un po’ dei compaesani più adulti.[19]

In assenza della previdenza sociale alle donne anziane, prive di reddito o impossibilitate a lavorare, provvedevano i parenti o vicini impietositi dalle situazioni e che all’occorrenza dispensavano alle bisognose una mestolata di polenta o di minestra, una cesta di patate o un carico di legna per affrontare l’inverno.

Nel Novecento, tuttavia, anche nelle realtà di montagna cominciarono a svilupparsi importanti spazi di emancipazione e le donne, cresciute tra il duro lavoro dei campi e l’accudimento del bestiame, la cura della prole e la dimensione domestica, assunsero via via la capacità di sostenere anche le altre sfide della quotidianità, specie quando i mariti si allontanavano per cercare lavoro in inverno, partivano per lunghi periodi al fronte, talvolta senza farvi ritorno o cedevano alla sciagurata dipendenza dall’alcol.

Al tempo stesso l’incremento turistico e la gestione di importanti attività ricettive vedeva l’assunzione di responsabilità imprenditoriali cui non si sottraevano alcune esponenti del gentil sesso.

Ad inizio secolo dopo la prematura scomparsa del marito che l’aveva costruito qualche anno prima, la proprietà del prestigioso Hôtel Broggi al Pian della Mussa passò alla signora Broggi. Negli stessi anni Angela Broggi (non sappiamo se fosse la stessa vedova o una parente di Angelo), guidava il nuovo grande rifugio Gastaldi inaugurato nel 1904, attività che mantenne almeno fino alla fine del 1911.[20] Anche il nuovo e grande albergo Reale in Balme era condotto nello stesso periodo dalla vedova Canale.

L’accostamento tra mondi diversi introduceva spunti di riscatto e l’esempio di donne capaci di prendere le redini di situazioni complesse, stimolava anche le montanare a mettersi in gioco. Forse per questo quando il 3 agosto 1909 si costituì la “Società Anonima Cooperativa di Balme” per l’esercizio di una centrale idroelettrica, innovazione ritenuta epocale, tra i 38 soci fondatori comparivano ben tredici donne.[21]

A piccoli passi, si cominciavano a conquistare minuscoli ma determinanti spazi di considerazione. Ne è un esempio la pratica dello sci, disciplina forse introdotta in paese dai congedati della Prima guerra mondiale, che vide presto alcune ragazze, armate di gonnelloni e assi di legno, imitare le evoluzioni sulla neve degli abili coetanei.  Così, inserite nei contesti sportivi, si trovarono presto coinvolte in competizioni per le quali si predisponevano percorsi dedicati. Come la Coppa Esercenti Ala-Balme, disputata il 15 febbraio 1931, che prevedeva un percorso femminile di 6 chilometri. Nel pieghevole promozionale si spiegava: «L’uso dello sci è ormai grandemente diffuso fra tutta la popolazione maschile non solo, ma anche fra il giovane elemento femminile». Qualche balmese intraprendente, come Caterina Castagneri detta Rìna äd Gep, sorella del noto sciatore Pietro detto “L’Aria”, non si tirò certo indietro.

Sciatrici al Pian della Mussa negli anni Trenta (archivio Pia De Poloni)

E altrettanto accadde qualche anno dopo per la tradizionale festa primaverile degli alpinisti del CAI torinese, convocata a Balme per il 21 maggio 1933. La gara intrapresa a quote elevate, vide anche la partecipazione di giovani atlete, tra le quali spiccò la prova della balmese Irma Castagneri (Bàcou) che, nonostante le rudimentali attrezzature, conseguì il primo posto nella speciale classifica femminile stupendo il cronista che riportava su La Stampa del giorno dopo, quanto fosse «tanto più degno di nota se si pensa che era salita nel mattino stesso direttamente da Balme alla Sella dell’Albaron di Savoia, superando in salita oltre 2000 metri di dislivello». Intanto al Pian della Mussa, più serenamente, si concentravano lo stesso giorno centocinquanta ragazze in costume, provenienti da Ala di Stura, Balme, Cantoira, Ceres, Chialamberto, Groscavallo, Mezzenile e Viù, accolte da centinaia di turisti giunti da Torino. [22]

Alle evoluzioni sportive aveva scelto un percorso alternativo Anna Annunziata Castagneri (della famiglia Gianangel äd Teresina), nata nel 1897 ed emigrata in città, che era invece diventata cantante di teatro.[23]

Ragazze di Balme durante la guerra

I tempi difficili segnavano talvolta una discontinuità tra un prima e un dopo imponendo l’assunzione di nuove incombenze. Così accadde nel periodo resistenziale, quando la crudeltà della guerra civile contrappose le giovani del paese, alcune apertamente schierate a supporto dei partigiani, come Orsola Lina Castagneri, staffetta nelle formazioni “Giustizia e Libertà” di Giulio Bolaffi in Val di Susa, e altre invece, dalla parte opposta. Proprio a seguito di queste diverse posizioni persero la vita in circostanze oscure Marianna Castagneri, uccisa insieme al padre nel maggio del 1944 e l’ausiliaria Luciana Drovetto nell’aprile del 1945. Caterina Droetto era invece deceduta a seguito dei bombardamenti aerei su Torino nel luglio del 1943. L’impiego presso alberghi e prestigiose abitazioni signorili, alà a sarvènta, portava ad un confronto con realtà totalmente dissimili che costituivano anche esperienze di crescita individuale e di contatto con situazioni emancipate. Alcuni ritratti emersi di recente ed eseguiti da Laura Ferreri negli anni Quaranta, raffigurano egregiamente i volti di alcune giovani valligiane a servizio della prestigiosa villa Teja, di proprietà della famiglia della pittrice, la prima residenza di villeggiatura costruita a Balme nel 1880. [24]

Dipinto di Laura Ferreri

In tempi così complicati emergevano intanto straordinari personaggi femminili, tra i quali spiccava la poliedrica figura di Cristina Bricco Camussòt, conosciuta e ricordata come Castinòt. Don Giuseppe Ponchia ne descriveva così le straordinarie capacità: «Questa donna di eccezione dotata di un senso pratico e di una abilità negli affari veramente sorprendenti, magna pars nella gestione del grande complesso alberghiero del Camussot, cacciatrice famosa come il padre cav. Stefano ed il nonno Giacomo Bricco, che abbatté essa pure parecchi camosci, che guida l’automobile ed il camion dell’albergo con una impareggiabile sicurezza, che della zootecnia possiede i segreti (ne fanno fede le numerose mandrie che riempiono gli alpeggi dei Camussot di festosi belati e di tremuli muggiti), quando impugna la tavolozza ed afferra i pennelli esula completamente dal mondo degli affari e delle lotte per la vita quotidiana ed entra decisamente nel misterioso regno dell’arte, di quell’arte che le fu di supremo conforto nei grandi dolori familiari e nel sacrificio di un avvenire (che poteva essere splendido) per il bene della famiglia e specialmente per i figli del fratello ai quali la lega un affetto immenso e per i quali essa vive e tanto si sacrifica».[25]

La sorella Maria, per tutti Maria äd l’Aria, di tre anni più giovane e a lungo dietro al bancone del Caffè Nazionale, da ragazzina invece aveva avuto il privilegio di condividere l’amicizia con le coetanee Paola e Rita Levi Montalcini, quest’ultima futuro premio Nobel, che insieme alla famiglia frequentavano una delle ultime case di Balme, acquistata e detenuta per qualche tempo nei pressi dell’albergo Camussòt. Ma a farsi strada con piglio decisionale vi furono anche altre personalità femminili che assunsero la gestione di negozi e strutture ristorative e ricettive di tutto rispetto. Come Cristina Martinengo Cianìn, conosciuta come Tìna äd Mulòt, rimasta vedova precocemente e che condusse a lungo il caratteristico e fornito negozio a centro paese, o Caterina Castagneri, detta Rina äd Gep, al ristorante Bricco del Pian della Mussa, Cristina Castagneri, per tutti Tìna dou Vitòria, alla guida dell’albergo Vittoria, e Mariannina Castagneri, che con la Trattoria Alpina al Pian della Mussa in estate e la locanda Stella Alpina nel capoluogo, creò con riconosciuta autorevolezza caratteriale e totale dedizione, un modello di efficienza imprenditoriale che si protrasse per decenni.

Fuori dai confini balmesi altrettanto determinata fu la vita di Orsola Castagneri, Sulìna dou Cit Cafè. Figlia di Giovanni Battista che fu tra le più giovani guide balmesi della sua epoca, Sulìna fu assunta alla Fiat e grazie agli studi brillanti e una rapida carriera, con riconosciuta umiltà e nessuna ostentazione divenne in breve la responsabile del servizio bilancio della più grande azienda torinese.[26]

Certamente indispensabile per le sorti balmesi fu la figura di Italia Cazzaniga, che ebbe un ruolo sostanziale nella fondazione del villaggio Albaron e dell’imbottigliamento delle acque minerali, a fianco dell’inseparabile marito Giovanni Castagneri.[27]

Quintino Castagneri (1919-2007) frattanto, in quegli stessi anni salvava dall’oblio le musiche della tradizione balmese e componeva lui stesso un canto, Béla mariòira, bella ragazza da marito, nel quale omaggiava le giovani del paese nella parlata locale, idioma poco incline alle manifestazioni affettive.[28] La prima strofa recita: “Béla mariòira vinän a la fésta, que veu dounàte sit mas äd fioù, äl s’é cuìyes par la tuä̀ fésta, par dimoustràte lou min amoù”.[29]

Con il trascorrere del tempo, per fortuna, i costumi cambiano e le abitudini in qualche modo evolvono. Oggi che sempre più si avverte la necessità di rigenerare luoghi costantemente svigoriti dallo spopolamento e dal disimpegno, l’apporto di intraprendenti e determinate figure femminili può diventare sostanziale laddove, ergendosi a paladine di resilienza e vigoria, sull’esempio di quante le precedettero, sappiano introdurre nuovi modelli ricostituenti, capaci di dar vita ad una nuova epoca di ripresa, di sviluppo condiviso e di brillante vitalità.

[1] Marica Barbaro, Carla Parsani Motti, Maria Teresa Pocchiola Viter, Una fatica da donne – Indagine sulla quotidianità femminile nelle Valli di Lanzo tra fine Ottocento e metà Novecento, Società Storica delle Valli di Lanzo, Lanzo Torinese 2000, pag. 16

[2] Nunzio Filogamo, all’anagrafe Annunziato Filogamo (Palermo, 20 settembre 1902 – Rodello, 24 gennaio 2002), è stato un conduttore radiofonico, conduttore televisivo, attore, cantante e regista radiofonico italiano. Dopo aver esordito alla radio, fu tra i primi conduttori televisivi della televisione italiana, in particolare primo presentatore della kermesse musicale del Festival di Sanremo, del quale condusse in totale cinque edizioni.

[3] Miss Valli di Lanzo 1947, Il Risveglio 9 gennaio 1947

[4] Ibidem

[5] Piero Carmagnola, Vecchi partigiani miei, Nuova edizione a cura di Andrea D’Arrigo, Introduzione di Giovanni De Luna, Franco Angeli Editore, 2005, pag.57

[6] Luigi Francesetti, Lettres sur les vallées de Lanzo, Torino 1823. Traduzione stampata a cura di Piero Gribaudi, Luigi Francesetti di Mezzenile, Lettere sulle Valli di Lanzo (Mezzenile, 1820-1822), Società Storica delle Valli di Lanzo, Lanzo Torinese 2017, pag. 62

[7] Alessandro Martelli, Luigi Vaccarone, Guida delle Alpi occidentali del Piemonte – Dal Colle dell’Argentera al Colle Girard, Pubblicazione della Sezione di Torino del Club Alpino Italiano, 1880

[8] Angelo Castagneri, Genealogia dei Castagneri-Bricco – Bernagione – Cornetto e parte dei Martinengo- Dematteis, manoscritto 1932

[9] Luigi Clavarino, Saggio di corografia storica e statistica delle Valli di Lanzo, Tipografia della Gazzetta del Popolo, 1867 – Ristampa anastatica a cura di Piero Gribaudi. Pag. 229

[10] Ibidem, Pagg. 227 -228

[11] Ibidem, Pagg. 228

[12] Il fen äd mountàgni, fieno di montagna, sono ciuffi d’erba raccolti tra le rocce e fatti essiccare per contribuire all’approvvigionamento di foraggio per l’inverno.

[13] Angelo Castagneri, Memoriale delle disgrazie accadute nel comune di Balme, ms., 1932

[14] Giorgio Inaudi, Tempo di neve, storie di valanghe, Barmes News n. 3, Dicembre 1994

[15] Piercarlo Jorio, Sapere di terra – La condizione femminile nelle Valli di Lanzo e nel Piemonte alpino, Priuli & Verlucca Editori, Pavone Canavese (TO) 2002 pag. 20

[16] Testimonianza di Paola Castagneri, dicembre 2022

[17] Maria Savj-Lopez, Le Valli di Lanzo – bozzetti e leggende, Torino: Libreria Editrice Brero, 1886 (Ristampa anastatica a cura di Piero Gribaudi Editore, Torino: 1974

[18] Giorgio Inaudi, Il viaggio romantico di Estella Canziani, Barmes News n. 17, Gennaio 2002. Vedi anche Paul Guichonnet e Francois Forray (a cura di), Il mondo alpino di Estella Canziani, Priuli & Verlucca Editori, Ivrea 2005

[19] Testimonianza di Paola Castagneri, 17 dicembre 2023. Vedi anche: Giorgio Inaudi, La tragica fine di Michinòta, la cartomante di Balme, Barmes News n. 27, Gennaio 2007

[20] Gianni Castagneri, Agli albori della villeggiatura alpina. L’albergo Broggi – Savoia al Piano della Mussa, Barmes News n. 56, Luglio 2021

[21] Società Anonima Cooperativa per l’Illuminazione Elettrica di Balme, Statuto Organico, 3 agosto 1909

[22] Aldo Audisio (a cura di), Nevi perdute – Scenari sciistici delle Valli di Lanzo, Società storica delle Valli di Lanzo, Lanzo Torinese 2023

[23] Gianni Castagneri, La fortuna è da un’altra parte – Appunti di emigrazione balmese, Barmes News n. 39, Gennaio 2013

[24] Valeria Amalfitano, Una casa, tante storie. Villa Teja tra donne, violini e le Alpi, Barmes News n. 53, Gennaio 2020

[25] Don Giuseppe Ponchia, Una pittrice delle Valli di Lanzo: Cristina Bricco, Il Risveglio n. 30, 1957, Barmes News n. 45, Gennaio 2016

[26] Giorgio Inaudi, Due donne forti: Sulina e Marianetta Castagneri, Barmes News n.53, Gennaio 2020

[27] Gianni Castagneri, La scommessa di Giovanni e Italia: l’audacia esemplare di due imprenditori, Barmes News n. 44, Luglio 2015

[28] Elisabetta Zanellato e Giorgio Inaudi (a cura di), La musica qu’i vìnt dal ròtchess, Ivrea: Tipografia Paolo Bardessono – Comune di Balme, 2009

[29] Traduzione: Bella ragazza vieni alla festa, che voglio darti questo mazzo di fiori, li ho raccolti per la tua festa, per dimostrarti il mio amore.

Tratto da Barmes News 61 (gennaio 2024)

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