Una montagna di gentilezza

di Giorgio Spertino

“Io ti vedo” è il saluto che i Na’vi, il fantasioso popolo del film “Avatar”, si scambiano. È la dichiarazione che io vedo chi incontro, cioè, riconosco l’Altro come me. È quanto accade quando si sale in montagna. Immagina: stai salendo, il passo è lento, monotono ma costante, lo zaino pesa sulle spalle, il fiato si fa sentire, lo sguardo è attento a dove metti il piede poi senti un rumore di passi, alzi lo sguardo e lo vedi. È l’Altro, un altro che incrocia il tuo passo e il tuo sguardo. Anche lui sudato, ansimante, forse stanco e un po’ affamato. In altre parole è uno come te.

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A questo punto non ha più senso chiedersi perché ci si saluta in montagna. È un moto improvviso, una affermazione di condivisione, un riconoscimento di umanità, è davvero un “Io ti vedo” che si trasforma in salve, buondì, hallo, grussgot, bonjour, salut e che non richiede una traduzione per capirlo.

A volte il saluto è ricambiato da un sorriso imbarazzato, da un’occhiata interrogativa (Perché mi saluta? Ci conosciamo?) o da un impacciato “salve”: è la reazione di chi non è abituato a percorrere sentieri, a salutare chi non conosce, chi riduce il saluto a pura convenzione sociale o a un masticato “’ngiorno”.

Per fortuna il rito del saluto in montagna è contagioso: per chiunque, anche per il più timido e inesperto escursionista, appena supera quella “sottile linea d’ombra” che separa il parcheggio per il pic-nic dai primi tornanti di qualsiasi sentiero, il saluto diventa il passpartout per fermarsi un attimo e scambiare qualche parola. Salutarsi in montagna non è una convenzione sociale, è un gesto di gentilezza, di apertura, di innocente complicità di chi condivide, anche solo per un attimo, il sentiero comune. Non è solo cortesia, è qualcosa di più profondo. Cortesia è cedere il passo a chi va più veloce, dare la precedenza a chi sale quando si scende su uno stretto sentiero (chi sale fatica di più), aiutare il compagno quando è stanco, mentre il gesto gentile non presuppone un grazie o un complimento per quanto si è fatto. Si è fatto risalire l’abitudine di salutare a quello “spirito del viandante” che tutti i popoli nomadi hanno conosciuto e che si mantiene ancora sul cammino di Santiago di Compostela o in qualsiasi altro cammino di pellegrinaggio. La miglior sintesi di questo “spirito del viandante” è offerta dal poeta irlandese William Butler Yeats che scrisse: “Qui non esistono sconosciuti, solo amici che non abbiamo ancora incontrato”.

In un ambiente potenzialmente ostile, a volte sconosciuto, sempre meraviglioso ma dall’equilibrio instabile (il meteo che cambia repentinamente, sentieri che si perdono, pietraie che si trasformano di anno in anno) l’incontro con un altro viandante era un’occasione per scambiare notizie, informazioni o semplicemente per chiacchierare dopo ore di silenzio e di solitudine. Perché in montagna non si può andar di fretta e non solo perché si fatica di più nel salire: è l’ambiente che ci insegna a seguire i ritmi naturali. Non può esserci fretta nella neve che cade come nell’abete che cresce. I camosci, gli stambecchi così come le marmotte e tutti gli altri animali alpini hanno un tempo per figliare come per far scorte per l’inverno e non c’è mai alcuna forzatura in ogni fase della loro vita. La fretta esiste solo laggiù dove si può illusoriamente forzare il tempo, un tempo artificiale svincolato dalla natura.

Il saluto è dunque il primo mattone di quell’edificio che è la solidarietà in montagna. Parola spesso abusata e ridotta a uno slogan, fraintesa perché solidarietà non fa rima con eroicità ma è costruita su piccole attenzioni. È, per esempio, il gesto della condivisione del pranzo in cui, anche per il più laico degli escursionisti, si rivive il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Sembra strano, ma succede ogni volta: se si condivide il cibo ognuno mangia più di quanto ha portato. E vuoi mettere la varietà gastronomica che salta fuori dagli zaini? A volte diventa una piacevole gara culinaria, dove la creatività sa realizzare farciture per panini da “haute cuisine” (pur sempre relativa al posto dove si mangia!). A dirla tutta l’appetito, la compagnia, il rilassamento per la salita che è finita aiutano alquanto il piacere della condivisione e abbassano il senso critico degli alpinisti-gourmand. Ma poco importano le motivazioni: l’importante invece è il piacere dello scambio e della condivisione.

La solidarietà diventa tangibile quando ci si lega in cordata. Quando si scala, nasce una strana combinazione: da una parte ognuno si compenetra in quel metro quadrato di roccia che gli sta davanti, il resto scompare, si arriva al punto di percepire solo se stessi, anzi parti scomposte di sé: le dita che si infilano in una fessura, il piede che poggia su una stretta cengia e gli occhi rivolti all’insù, in cerca di un appiglio. Al tempo stesso si percepisce l’altro compagno di cordata, come se la corda fosse un fluido energetico che accomuna, che letteralmente lega e fa sì che il singolo si senta parte di un duo, si affida totalmente e vicendevolmente al compagno che sta all’altro capo della corda. E se ognuno diventa l’altro in cordata, ecco che non ha più senso chiedersi chi raggiunge per primo la cima e chi per secondo. È la cordata che arriva nel punto più alto della montagna dove non c’è più niente da salire. Se l’abbraccio in vetta è il simbolo di questa solidarietà, non sempre il mancato raggiungimento della cima è da considerarsi un fallimento.

La più bella testimonianza di un atto di gentilezza in ambito alpino, anzi himalayano, è stata la scelta effettuata dall’alpinista altoatesina Tamara Lunger. Nel febbraio del 2016, insieme a due suoi compagni, tenta la scalata del Nanga Parbat, la nona montagna più alta del pianeta con i suoi 8125 metri e la seconda cima oltre gli ottomila per tasso di mortalità. Tamara riesce ad arrivare a 70 metri dalla vetta con temperature di -45° ma non si sente bene, vede la cima e sente gli incitamenti dei compagni ma si ferma. Ai giornalisti dichiarerà: “Temevo mi attendessero in vetta, ero molto lenta. Avrei rallentato troppo la discesa di tutti, sarebbe stato un suicidio. Con il buio avremmo rischiato di perdere la via, di non trovare le tende.” Così ha sussurrato: “Se arrivo in cima poi dovrete aiutarmi a scendere”. Si volta e da sola scende al campo base, rinunciando ad un’impresa sognata e preparata da anni. Tamara Lunger non è entrata nella storia alpinistica come la prima donna che scalò il Nanga Parbat d’inverno ma ha scritto la più bella pagina di generosità in montagna.

MEZZOPIENO NEWS MARZO – APRILE 2023

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Tratto da Barmes news 61 (gennaio 2024)