La flora nella toponomastica delle Valli di Lanzo

di Ariela Robetto

Premessa

Una carta geografica fisica permette la conoscenza di un territorio mediante la rappresentazione dei rilievi, corsi d’acqua, laghi, pianure, mari … Ma non è questo l’unico modo per avvicinarsi ad una regione, anzi direi che la prima cosa a colpirci sono i nomi dei monti, dei fiumi, dei laghi… insomma affrontiamo innanzitutto l’esperienza di un luogo tramite la toponomastica, dal greco tópos = luogo e ónomos=nome.

Si tratta di una scienza vastissima e insidiosissima, poiché i nomi sono stati i primi a delineare un paesaggio e rimangono gli ultimi a scomparire, permangono nella parlata comune anche quando se ne è persa da lungo tempo l’origine e non conservano più alcun significato per chi continua ad usarli quotidianamente.

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Non a caso Umberto Eco concluse il suo romanzo più conosciuto, «Il nome della rosa», apponendovi all’ultimo, prima di andare in stampa, la frase latina «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus» con il significato di «La rosa primigenia è ormai racchiusa solamente nel nome, al presente possediamo unicamente nomi nudi»; tutto, col tempo, svanisce: rimane il puro nome.

Ho scelto perciò un altro modo per guardare al territorio delle Valli di Lanzo, forse anche più interessante, scrupoloso ed empatico: rivolgersi ai topofitonomi, cioè ai nomi di monti, valli, pianori, pascoli, villaggi, alpeggi derivati dalla vegetazione che vi alligna; si può dire che essi delineino un affresco del paesaggio maggiormente denso di vita e più rappresentativo della montagna degli uomini, ricordando che la vegetazione costituisce l’86% della vita sulla nostra terra!

La cartina botanica delle Valli si estende per fasce di altitudine ad ognuna delle quali potremmo attribuire un colore ottenendo un variegato arcobaleno.

Poniamoci dunque in cammino lungo un ipotetico percorso tematico, naturalmente a piedi, lungo i sentieri che risalivano le Valli come i viaggiatori “pionieri” del XIX secolo.

Ritengo sia fondamentale in primo luogo tenere in debito conto la mentalità dei montanari generalmente rivolta alla natura con fini utilitaristici: può forse avvenire diversamente per gente sempre sul filo dell’esigenza di rinvenire il necessario per sopravvivere? Questo deve essere ben presente quando ci si addentra nell’intricato terreno della toponomastica alpina: mai lasciarsi attrarre da voli pindarici, anche se a volte la tentazione è forte e quasi tutti gli studiosi sono cascati in qualche scivolone; occorre mantenersi con i piedi ben piantati per terra: i nomi dei luoghi furono apposti per orientarsi su territori di solitudine, spesso perduti nelle nebbie e nel buio, per la ricerca del legname, del nutrimento per sé e per il bestiame, al fine di suscitare attenzione ai pericoli sempre appostati sui sentieri. Scordiamoci antichi dèi ancora mai tramontati, etimi provenienti dall’antica Grecia, dalla mitologia celtica… Ricordo ancora quando con l’amico Piercarlo Jorio fantasticammo a lungo sul nome di un alpeggio in comune di Cantoira denominato sulle carte Ciamp dou Giant; possedevamo entrambi una vivida immaginazione ed “il gigante” si delineò sotto le più svariate forme, nelle più temerarie storie. Anni dopo, incontrai un’anziana signora di Lities la quale mi raccontò essere quello l’alpeggio di suo nonno che si chiamava Giovanni, Gian in dialetto: il campo di Gian.

La ricerca si è rivelata particolarmente complessa a motivo della differenza tra i patois delle tre Valli, ancora diversificati da villaggio a villaggio, tenendo conto del fatto che i toponimi derivano quasi tutti da fitonomi espressi in termini dialettali locali.

La trascrizione dei toponimi è stata mantenuta come sulle varie carte e nella grafia dei diversi autori, per cui non segue regole lessicali specifiche; talvolta è stata semplificata la scrittura del francoprovenzale per facilitare la lettura dei nomi, dove necessario è stata mantenuta la grafia francese «ou» per indicare la u di uva, «u» per la u (y) di plume, «eu» come nel termine bleu; è stata indicata con «ë» la lettera «e» muta come nel francese je.

La maggioranza dei toponimi appartiene ai comuni di Mezzenile ed Usseglio: sono stati ricavati dalle ricerche effettuate per l’Atlante Toponomastico del Piemonte Montano e da Silvia Re Fiorentin per la sua Tesi di Laurea in Scienze Linguistiche; la ricerca di Attilio Bonci ha fornito antichi toponimi presenti nel Catasto dell’Archivio Storico di Lanzo Torinese.

Essi sono elencati sulla base delle essenze vegetali da cui derivano suddivise in sei gruppi empirici di elementi spontanei e coltivati: latifoglie; conifere; arbusti; piante erbacee dei boschi, dei prati, dei pascoli, delle rupi, infestanti delle colture; alberi da frutto; cereali; piante ortensi, aromatiche e per usi diversi.

Le informazioni botaniche nonché relative all’habitat ed all’uso delle piante sono tratte dai lavori del Prof. Gian Paolo Mondino per il Museo delle Scienze Naturali di Torino e di Aldo Chiariglione, citati in bibliografia.

 I) Toponimi derivati da piante spontanee legnose – Latifolie

01   CastagnoCastanea Sativa

I primi toponimi considerati si situano nella zona di Germagnano, poco a monte di Lanzo: Pian Castagna (Pian Castègna) e Castagnole (Castagnòle), situati rispettivamente a 565 m e 656 m di altitudine, sono due villaggi che debbono il proprio nome all’albero del castagno denominato nelle parlate locali, testagnìa a Viù, a Lemie, àrbou nel rimanente territorio valligiano: quest’ultimo fitonimo qualifica il castagno quale “albero” per eccellenza. Il frutto viene identificato come castégna oppure coca o cocca. Sul territorio è presente il ceduo di castagno, il castagno selvatico denominato servajou, bastard a Viù, un tempo tagliato ogni 10-15 anni e ora generalmente in corso di invecchiamento, e l’albero da frutto,   il castagno ad alto fusto innestato su piede selvatico; esso era con ogni probabilità spontaneo in Piemonte, ma la sua diffusione si ampliò enormemente con boschi allo stato puro sin dal Medio Evo. Il castagno fornì ai montanari un fondamentale apporto alimentare che oggi non ha più la stessa importanza ed i castagneti sono stati in maggioranza abbandonati dopo l’esodo dalla montagna negli anni ’50-’70 del secolo scorso. A parte i boschi ceduati preesistenti, altri castagneti da frutto sono stati trasformati in cedui tra il 1930 e il 1970 per combattere due gravi avversità, la malattia dell’inchiostro e il cancro del castagno dovute a due specie di microscopici funghi parassiti importati accidentalmente dall’Asia orientale. Il legname del castagno veniva usato per le travature dei tetti poiché non soggetto a marcescenza e quindi di lunga durata, mentre i giovani getti (arbùt) fornivano materiale da intreccio per le gerle; le foglie morte, prodotte in abbondanza, erano raccolte per la lettiera del bestiame,  i frutti venivano consumati freschi in autunno e conservati durante l’inverno, dopo una opportuna essicazione sulle lòbie (balconi in legno coperti), all’interno dei soulé mort (sottotetto non praticabile, di altezza ridotta), oppure, nella zona di Viù, nei benal (parte superiore dei fienili). Nonostante la sua diffusione, sino ai 1200 metri di altitudine ed anche sino ai 1500 metri sui versanti solatii, il castagno non ha lasciato molti altri toponimi: la Castagnèra e lou Testagnì, il Castagneto, nella regione di Mezzenile, quest’ultimo ai confini con il comune di Viù in cui l’albero è identificato con tal nome, e, ancora, li Couà, varietà di castagne coltivate un tempo nella zona; Case Castagna a 706 m nel comune di Traves; Arbarai nella bassa valle di Viù, presso la frazione Maddalene; Carpano (1931)  riferisce poi che il Creux Murai, che si incontra salendo da Germagnano a Viù, è anche denominato Arborai ed è circondato da rigogliosi castagneti. Pur se agglomerati piccolissimi, Pian Castagna e Castagnole offrono due particolarità interessanti: il primo un ben conservato torchio da vino, probabilmente di epoca medievale, cosiddetto di Catone, poiché già in uso presso i Romani e descritto dallo scrittore latino, visibile al di sotto del porticato della cappella dei Santi Antonio e Pancrazio; il secondo un piccolo ma ben curato Museo Etnografico degli oggetti di uso quotidiano che oggi ospita tre sezioni tematiche: le castagne, il fieno, la stalla, dall’albero….al laboratorio del mastro di bosco. I due insediamenti sono uniti da un piacevole sentiero il quale ricalca la primitiva via di accesso alla Valle di Viù (la vì d’li bosch) e fiancheggia ancora l’ultimo scampolo di viti coltivate al presente nelle Valli.

02  BetullaBetula pendula

Altri toponimi sono riferiti alla betulla (bioùl, bioùla, biolla) albero diffuso dalla pianura sino ai duemila metri; al presente esso risulta più propagato di un tempo poiché, essendo un cosiddetto pioniere, rapidamente occupa aree scoperte dopo gli incendi o il taglio e i numerosi pascoli in stato di abbandono. Ricordiamo due siti denominati Bioulaj nel territorio di Viù, uno dei quali, un villaggio fantasma ormai di soli ruderi, è compreso nel Percorso Sindonico poiché conserva una cappella dedicata alla Santa Sindone fatta erigere nel 1731 da Giuseppe Dragonerio «Sardinie Regis Famulus», servitore (probabilmente di cucina) del Re di Sardegna Carlo Emanuele III; inoltre, in territorio lemiese, presso la frazione Chiampetto, sorge l’alp Bioulai intorno ai 1200 m. In Val Grande ritroviamo nel territorio di Chialamberto,  a circa 1400 m di quota, i Torrioni del Biollé, percorsi da difficili itinerari d’arrampicata, nonché, a 1595 m, l’alpeggio Bioulé, a monte dei Torrioni, da tempo abbandonato ed oggi nuovamente utilizzato quale ovile,  e poi ancora l’insediamento del Bioulé nel comune di Groscavallo, a 1013 m. Sempre in Val Grande, nel vallone laterale di Vassola, ad altezza superiore, sorgono l’Alpe Biolla (2386 m) e l’omonimo laghetto; anche nel territorio di Mezzenile sono presenti i toponimi «lou bioùl»  e «lou roc doou bioùl». Nel territorio di Pessinetto Fuori si trova la borgata Biolai dove sorgevano le case per la dirigenza fatte erigere dal Cotonificio Valli di Lanzo.

03   Ontano comune o ontano neroAlnus glutinosa

Altro albero diffuso ovunque nelle Valli, sino ai 1500 metri, soprattutto lungo i corsi d’acqua, è l’ontano, denominato verna nei patois locali, il quale ha originato alcuni toponimi diffusi in tutto il territorio: Vernetei, Vernatei (documento del 1570), Vernataij (documento del 1687)  nel Comune di Lanzo Torinese (Bonci 2007); Vernai (778 m) frazione di Viù; alpe Vernataj e rio Verna nella zona di Richiaglio, frazione di Viù; località Varnëtà (1245 m) nel comune di Usseglio, composta da prati pianeggianti e ricchi di ontani, situati sul pianoro che precede la frazione Pianetto provenendo dal fondovalle: in passato  l’area era coltivata a canapa, grazie all’umidità che la caratterizza, oggi è invece incolta; nella valle centrale sorgono  Vernai nel comune di Pessinetto, li Vërnai (773 m) nel territorio di Mezzenile; Vernetto (Lou Vërnèi), frazione di Ceres nella quale, probabilmente in periodo autarchico, si coltivò una miniera di minerali di manganese ; l’alpeggio le Vernette (al Vërnëttës), sempre nel comune di Ceres; località Vernelone nel comune di Groscavallo. Porporato (1962) riferisce notizia dei casolari di Vernè, in Ala di Stura, dove visse Stefano Alasonatti  nato nel 1782, il quale acquistò la fama e il nome di mineralogista; quando il Vernè fu completamente distrutto da un incendio furioso, egli si trasferì nella frazione della Croce, appena a monte del Vernè.

da Ontano verdeAlnus viridis

È la specie arbustiva di ontano frequente più in quota in tutte le Alpi.  Il suo areale risulta frammentato in quanto la specie cresce in estese formazioni allo stato puro solo negli ombrosi e umidi versanti esposti a nord, fra 1500 e 2100 m e oltre, a prolungata copertura nevosa, anche nei canaloni di valanga; su queste pendici forma fittissimi cespuglieti quasi impercorribili per il portamento ascendente dei numerosi fusti arcuati e flessibili, lunghi sino a 4-5 m; oggi tende ad invadere i pascoli freschi in abbandono. Nelle Valli di Lanzo è denominato dròsa, di provenienza probabilmente celtica (gallica). Verosimilmente situati sulle pendici Sud e Sud-Est del Monte Lera, tra i settori di Malciaussia e Margone, sorgevano due alpeggi denominati «Droseus Mezanus» e «Droseus Bruxatus» citati in un documento del 1212.

da FrassinoFraxinus excelsior

Anche il frassino (fragnou, frassou) ha una buona espansione nelle Valli sino oltre i 1500 metri: Case Frasai è un gruppo di abitazioni sul Monte Basso in territorio lanzese; un’alpe la Frassa è situata a 1547 metri nel Vallone dell’Ovarda in territorio di Lemie; a Mezzenile li Franhou indica una località a 665 m dove un tempo sedevano per una pausa all’ombra dei frassini (poi abbattuti per la costruzione della carrozzabile) i chiodaioli che lavoravano nelle fucine dei Fornelli, ël Frasë, a 900 m, indica un terreno in forte pendenza sfruttato in passato per ricavarne legna da ardere;  li Fragnei sorgono a 1408 metri nel vallone del Rio d’Almesio (Ceres); la grangia della Frassetta sorge poco sopra Ala di Stura tra Rian del Ren e Rian della Chiesa; lungo la sterrata che da Mondrone, in Val d’Ala, raggiunge l’alpe di Pian Prà, alle falde dell’Uja, si incontra l’alpeggio, ormai abbandonato e diroccato, dei Fragné; nel comune di Chialamberto la miniera di pirite cuprifera del Fragné fu attiva dal XVIII secolo sino al 1965 : si estende, ormai del tutto abbandonata, per una lunghezza di 5 km su ben 11 livelli; è poi comunemente denominata Madonna della Frassa, l’aerea cappella intitolata alla Vergine delle Grazie, in posizione molto panoramica, sita nell’omonimo alpeggio a 1600 metri nel comune di Chialamberto.

da Olmo montanoUlmus glabra

L’olmo montano (oulm, ourm, ourmou) ha conferito il nome al Santuario della Madonna degli Olmetti, toponimo in cui compaiono gli olmi che la coronavano diffusi quasi esclusivamente nella medio – alta Valle di Viù sino ai 1800 metri;  il sacro edificio, intitolato alla Natività di Maria, sorge nel comune di Lemie, solitario, in un sito quanto mai suggestivo presso il torrente Stura ed ha originato un’antica leggenda legata alla processione notturna dei morti che portano pena vagando per monti e per valli. Così la descrive il conte Francesetti : «… passammo davanti a una cappella denominata la cappella degli Olmetti, luogo pittoresco quanti mai. È situata alla sinistra della strada maestra per chi sale, sul bordo della Stura, sulla quale c’è qui, dietro la cappella, un ponte in legno. Attorniata tutto intorno da un portico, la cappella è stata costruita al centro di un piccolo bosco di olmi, dal quale prende il nome. Sono sicuramente pochi i giardini all’inglese che abbiano un edificio di un genere tanto singolare e situato in una posizione così felice». Al presente davanti al sacro edificio vegeta solamente un olmo, ripiantato dopo che l’ultimo esemplare plurisecolare superstite fu abbattuto poiché attaccato dalla grafiosi.

da Faggio  –  Fagus sylvatica

Benché molto comuni su tutto il territorio delle Valli dal basso sino intorno ai 1600 metri, i faggi (fòou, fo, fov, fàou) non hanno lasciato, forse proprio a motivo della loro ampia diffusione, molti toponimi: ricordiamo l’Alpe Pian di Fo (1553 m) presso i Rivotti di Groscavallo, la Riva ‘d li Fòou a 950 metri nel comune di Mezzenile, così come la Fountana ‘d li Foou, alla base della predetta Riva, la cui acqua sgorga a temperatura costante, tanto da risultare in inverno fumante e in estate gelata. Alcuni studiosi fanno risalire a tale essenza arborea anche i toponimi , frazione di Ceres, citato in antichi documenti come «Faietum», inoltre Pianfé nel Vallone di Almesio e Belfé a monte di Bracchiello (entrambi nel Comune di Ceres), Pianfé e Belfé nel Comune di Ala di Stura, ma l’attribuzione pare alquanto incerta: ad essi potrebbe, infatti, attribuirsi il significato di “pian fè”, piano fatto, ossia pianoro ricavato artificialmente dall’abbattimento del bosco, pianoro roncato. Nelle Valli le faggete sono quasi ovunque boschi cedui in quanto il legno di faggio era usato come combustibile, soprattutto nel periodo protoindustriale. Fino alla Seconda Guerra Mondiale quest’ottimo legno veniva trasformato in carbone: la lenta combustione controllata avveniva nel bosco nelle charbounèri di cui al presente rimangono ancora tracce evidenti nei ripiani, a volte ottenuti tramite terrazzamento, dove il terreno si presenta nero. Uno di essi si incontra salendo al Santuario di Santa Cristina ed è denominato Ciamp Magnin (Campo Nero): vuole la leggenda che il sacro edificio dovesse essere eretto in quel sito, ma la Vergine Martire con segni miracolosi scelse invece la rupe sommitale. Il frutto del faggio, la faggiòla (lou fajòt) era usato per produrre un olio che veniva mescolato con quello delle noci e delle nocciòle.

da Ciliegio selvatico e domestico Prunus Avium 

Il ciliegio, (siriés, sirìass, sirìa, ciresé, ciriboj), sia selvatico, sia domestico  è assai diffuso nelle Valli: coltivato presso le abitazioni e gli alpeggi, cresce poi spontaneo nei boschi di latifoglie, a volte in nuclei consistenti che si distinguono soprattutto in primavera a motivo delle candide fioriture e in autunno quando le foglie si tingono di un rosso vivo; da esso deriva quasi sicuramente il nome di Ceres (Sérës), uno dei paesi più importanti nelle Valli; molti lo vorrebbero collegato alla dea Cerere (Ceres in latino) la quale compare anche sullo stemma comunale, ma tale derivazione è quanto mai improbabile; incontriamo poi ancora lou Sirès, zona prativa nel comune di Usseglio. Aldo Chiariglione (2023) fornisce quale toponimo derivante da ciliegio anche il Bec Ceresin, un curioso monolite presente nel vallone del Trione (Val Grande); ad esso sarebbero quindi da unire anche i Bech dij Ceresin  nel Vallone di Almesio (Ceres), lungo la riva idrografica sinistra dell’omonimo torrente, cui fa capo un’antica leggenda secondo la quale Ceresin sarebbe un nano-folletto particolarmente timoroso nei confronti degli uomini.  Tale ipotesi pare piuttosto improbabile: attribuirei a «Ceresin» una derivazione da radice preindoeuropea «car» con significato di roccia, altezza. A Mezzenile si incontra il toponimo di Cham(p) ‘d la Chèila, una varietà di ciliegia bianca con sfumature rosse.

da Sorbo montano o farinaccioSorbus aria

      Sorbo degli uccellatoriSorbus aucuparia  

Il sorbo montano (aiè, aliè, aliërri, ariè) ha conferito il nome a yi Aiè a 1280 metri nel comune di Usseglio un piccolo terrazzamento situato a monte della frazione Pianetto caratterizzato dalla presenza di sorbi selvatici, con le tipiche bacche rosso-aranciate dette ‘ls aië’, a differenza dei terrazzamenti confinanti, questo era coltivato; i sorbi crescevano in prossimità dei muretti a secco che lo delimitavano, ora risulta incolto. Pare opportuno, a tal proposito, ricordare che un tempo, sia il sorbo montano che il sorbo degli uccellatori erano utilizzati per segnare i confini di proprietà in quanto i frutti rossi vengono mantenuti anche durante l’inverno sugli alberi e restano ben visibili quando la neve imbianca i terreni. Attualmente è diminuita la presenza di tali piante nell’area, ma questo non ha portato a modifiche del toponimo. Sempre in territorio ussegliese, il sorbo degli uccellatori (la tumèla) ha denominato lou Tumlei, definito Monte Tumlet, 1830 m, sulle carte, interessato dalle piste da sci del comprensorio di Pian Benòt. Il fatto che i frutticini di colore rosso corallo attirino gli uccelli ha influenzato la denominazione italiana e latina di questa pianta. Il nome italiano ricorda che questa specie veniva piantata nei pressi delle abitazioni in montagna in modo da attirare gli uccelli da cacciare. Anche il nome scientifico si rifà alle voci latine avis «uccello» e capĕre «catturare» e dal verbo derivato aucupari.

da Acero di monteAcer pseudoplatanus

L’acero di monte in francoprovenzale è denominato piànou, derivato dal latino platanus; ha conferito il nome a Pianetto, lou Pînèi, frazione di Usseglio, ed all’alpe Li Piànou a monte dei Chiappili di Chialamberto.

da Maggiociondolo di montagnaLaburnum alpinum

Il nome latino derivato da alburnum  (“legno bianco”), ha dato origine alle denominazioni locali francoprovenzali: ambouërn, ambouòrn, arbouòrn. Interessanti sono le denominazioni influenzate dal piemontese bambliné (“ciondolare”) delle belle infiorescenze gialle pendule, in punti lontani fra loro: con tale termine è ad esempio denominato a Lemie. Il maggiociondolo ha conferito il nome all’Ambournai, a 884 metri nel comune di Viù, l’Ambournai a 1350 metri nel comune di Mezzenile, l’Arbourné e, forse, l’Arbosetta nel territorio di Balme: anche se quest’ultimo toponimo parrebbe più significativamente riconducibile ad àrbou, castagno,  la derivazione pare improbabile, considerata l’altitudine dell’alpe, ma dobbiamo ricordare che su versanti esposti al sole, tale essenza può raggiungere anche i 1500 metri.

da Tiglio selvaticoTilia cordata

Il tiglio  (tij, tea, teja) non è frequente nelle Valli: la sua presenza si può notare sino intorno ai 1000 metri, anche se qualche nucleo vegeta sino intorno ai 1400 metri:  ha lasciato il nome alla frazione Tiglierai di Traves e potrebbe averlo conferito anche all’Alpe La Tea (la Teja) a monte di Martassina nel Comune di Ala di Stura, ma l’altitudine di questo alpeggio (1528 m) lascia molti dubbi in merito.

da SaliceSalix

«I salici comprendono numerose specie arboree e arbustive legate a suoli freschi e umidi. Le varie specie non sono sempre facilmente riconoscibili a causa della variabilità dei loro caratteri morfologici e anche perché nascono spesso spontaneamente forme ibride. Le difficoltà di identificazione si riscontrano pure nelle parlate locali, le quali spesso utilizzano un termine generico che identifica più specie, oppure lo stesso tipo lessicale viene usato in località diverse per indicare specie differenti. In alcuni luoghi per denominare un tipo di salice si utilizza la voce che altrove si riferisce solo ai giovani rami, un tempo assai utilizzati ai fini pratici, usando cioè il nome di una parte per indicare la pianta intera» . Nella parlata francoprovenzale delle Valli di Lanzo sono in uso le denominazioni sàles, vench e gourìn:  quest’ultimo parrebbe essere riferito al salice nano arbustivo (Castagneri, Genta, Santacroce 2021), mentre Re Fiorentin (2007/2008) lo riferisce al Salix Caprea  al quale  Chiariglione (2023) attribuisce invece il fitonimo sàles, riservando gourìn, cui aggiunge anche vench e venchée, al Salix viminalis  di cui attesta al presente rare presenze nella Valle inferiore dove un tempo era ampiamente coltivato; Genta, Santacroce (2013) indicano con tale termine i rametti del salice da vimini.  Il signor Cargnino di Pian Bausano denomina vench  i giovani rami di salice con cui lega i tralci delle sue viti, mentre attribuisce il nome gourìn ai salici che crescono lungo la Stura (probabilmente Salix caprea). Come appare evidente la confusione è difficilmente districabile. Sta di fatto che solamente il fitonimo gourìn ha lasciato toponimi nelle Valli: Costa Gurin sul versante sud del Pian della Mussa (Balme), presso Pian del Turale, antico lago ora trasformato in torbiera, ël Gòrë, area umida e pianeggiante a 1265 metri lungo il torrente Stura nel comune di Usseglio, Case Gorai presso Villa di Lemie; molto interessante pare poi l’interpretazione fornita da Bonci (2012) per il toponimo Biò, frazione di Traves: egli annota che «biò» nel dialetto piemontese significa «arnese di vimini» e deriva dal savoiardo bio, salice da  vimini.  Queste piante sono amanti dei luoghi umidi e Biò sorge sulla riva sinistra del torrente Stura. Per sàles si potrebbe anche pensare un po’ azzardatamente ai vari Pian Saulera, Sauleri, a lou riën ‘d Soouléri, ma non vi sono attestazioni certe in tal senso e l’attribuzione rimane molto dubbia.

da RovereQuercus petraea

Ampiamente diffusa nelle Valli sino ai 1300 metri di altitudine, la rovere (rou, roul, roua) stranamente ha lasciato pochissimi toponimi: il Monte Rolei (898 m) sullo spartiacque fra Balangero e la Valle del Malone, condiviso fra i comuni di Balangero, Corio e Mathi, stranamente denominato Lorei nella parlata di Corio (informazione Filippo Giletti 2023); Rollatero in Lanzo (Bonci 2007). Il frutto della rovere, la ghianda (lou ghiant) ha lasciato probabilmente due toponimi nel comune di Viù: li Ghiandé nella frazione Fubina e nella frazione Chiaberge.

da Bosco – dal latino medievale Boscus o Buscus

Alcuni toponimi traggono origine dal generico termine bosco (bosch): Boschetto presente nel 1570 nel Comune di Lanzo (Bonci 2007); Boschietto, frazione di Cantoira; l’alpeggio Pian Bosch, 1664 m, ancora frequentato, in Val d’Ala, alle propaggini dell’Uja di Mondrone; lou Bouschat, alpeggio estivo nel comune di Usseglio; Boschi Neri nel Vallone del Rio Maddalene in territorio di Viù; come Bosch e Bouschët è poi presente quale microtoponimo nel comune di Mezzenile.

***Parte prima***

Tratto da Barmes news 61 (gennaio 2024)

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